La Buddhologia è quel campo del sapere proprio delle scienze delle religioni, della storia delle religioni, dell'orientalistica e della filosofia che si occupa dello studio accademico del Buddhismo, dalla figura del suo fondatore, Siddhartha Gautama, fino alle dottrine e pratiche proprie di questa religione e di questa filosofia religiosa sviluppatesi nel corso della sua storia in Asia, ed infine la sua diffusione in Occidente.

Gautama Buddha mentre medita nella posizione del loto. Arte del Gandhāra, I-II secolo (Tokyo, Museo Nazionale)

I primi contatti tra l'Occidente e il Buddhismo

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  Lo stesso argomento in dettaglio: Buddhismo greco e Arte greco-buddhista.

L'opinione più accreditata tra gli studiosi del Buddhismo[1] è che, fatto salvo alcune influenze del pensiero indiano probabilmente presenti nello stoicismo e nello scetticismo nonché gli scambi culturali avvenuti tra greci e indiani nei Regni indo-greci nati dalle conquiste dell'imperatore macedone Alessandro Magno, nello specifico il Regno greco-battriano e il Regno di Gandhāra nel V e IV secolo a.C. tra cultura greca e cultura indiana, non ci sono indizi sufficienti che supportino l'ipotesi di una conoscenza del Buddhismo da parte della cultura occidentale almeno fino al XIII secolo, anche se, secondo il professore Stephen Batchelor[2], influssi del Buddhismo sono probabilmente presenti nello gnosticismo, e ampiamente riconosciuti nel manicheismo dall'orientalista italiano Gherardo Gnoli[3]. Nei secoli successivi il buddhismo ebbe fortuna anche negli Imperi Maurya (IV-II secolo a.C.) e Kushan (I-III secolo), la cui estensione arrivò a comprendere i Regni indo-greci del Gandhāra e della Battria.

 
Marco Polo (1254-1324)

Nel Medioevo si diffuse la "Leggenda di Barlaam e Josafat",[4] due santi cristiani che sarebbero vissuti nella sperduta India e che in realtà, secondo Jurgis Baltrušaitis (1903-1988),[5] celerebbero i termini di buddha e bodhisattva.

Dobbiamo tuttavia attendere le prime memorie di viaggiatori come Marco Polo per intravedere usi e costumi dei popoli orientali da cui si può desumere la presenza della religione buddhista.
A partire dal XIV secolo, l'Europa cristiana avviò il tentativo di cristianizzazione del continente asiatico inviando, tra gli altri, i gesuiti Matteo Ricci (1552-1610) in Cina, Francesco Saverio (1506-1552) a Goa e Taiwan, e Ippolito Desideri (1684-1733) in Tibet.
Per questi missionari cristiani il Buddhismo non era in alcun modo definibile come religione, essendo quest'ultimo termine sinonimo per loro di monoteismo. I gesuiti ancora non conoscevano l'origine indiana di quei culti che identificarono come Fo[6] in Cina e Xaca in Giappone.

 
Guillaume Postel (1510-1581)

Ma se da una parte Matteo Ricci nel 1603 avviò presto la polemica antibuddhista pubblicando il Tiānzhǔ shíyì (天主實義, «Il vero significato del Signore del cielo») dove accusava di "arroganza" il fondatore del Buddhismo[7], dall'altra Guillaume Postel aveva pubblicato nel 1553 a Parigi il Des merveilles des Indes et du Nouveau Monde, où est montré le lieyu du Paradis terrestre, dove sosteneva che il nome del Buddha giapponese indicava in realtà "Gesù Cristo crocifisso"[8]. Tuttavia il gesuita tedesco Maximilian van der Sandt (1578-1656) nella sua opera Theologia Mystica seu Contemplatio divina Religiosorum a calumnis vindicata (1627) cercò comunque di confrontare la mistica cristiana con quella delle religioni non cristiane, giudicando tuttavia quella buddhista come "naturale" e non apportatrice di salvezza[9].

L'Ottocento: la coniazione del termine "Buddhismo" e i primi studi

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Benjamin Constant (1767-1830) fu tra i primi studiosi europei ad affrontare il tema del Buddhismo.
 
Brian Houghton Hodgson (1800-1894)
 
Jules Barthélemy-Saint-Hilaire (1805-1895)
 
Arthur Schopenhauer (1788-1860)

È a partire dal XVIII secolo che gli europei scoprirono l'origine indiana di molte religioni asiatiche, e l'interesse verso queste è presente in Voltaire (1694-1778), il quale, nell'edizione del 1765 (Ed. Varberg) del suo Dictionnaire philosophique, aggiunge la "Questione ottava" alla voce "Religione", dove criticamente così si esprime:

«Un bonzo pretende che Fo sia un dio; che sia stato predetto da alcuni fachiri; che egli è nato da un elefante bianco; che ogni bonzo possa fare un Fo con qualche smorfia. Un talapoino dice che Fo era un sant'uomo, di cui i bonzi hanno corrotto la dottrina e che il vero dio è Sammondocon. Dopo cento argomentazioni e cento smentite, le due fazioni si accordano di rimettersi al dalai-lama, che abita a trecento leghe di distanza, che è immortale e anche infallibile.»

Con la scoperta del sanscrito[10], alla fine Settecento si procedette infatti alle prime traduzioni dei Veda, cui seguirono le prime traduzioni dei testi buddhisti[11]. Ma solo nel secondo decennio dell'Ottocento gli europei identificarono il Buddhismo come una religione ben differenziata[12], cui seguì la coniatura del nuovo termine "Buddhismo" per indicare tale fede religiosa, termine utilizzato per la prima volta, come bouddisme, da Michel-Jean-François Ozeray (1764-1859) nella Recherches sur Buddou ou Bouddou, instituteur religieux de l'Asie orientale pubblicata nel 1817.
A questo autore seguirono:

  • Benjamin Constant (1767-1830), che nel 1827 pubblicò in uno dei suoi volumi De la religion considérée dans sa source, ses formes et son développement, uno dei primi studi sul Buddhismo.
  • Brian Houghton Hodgson (1800-1894), che nel 1841 pubblicò la Illustration of Literature and Religion of the Buddhists; a Hodgson, un funzionario della Compagnia delle Indie Orientali vissuto alla corte del re del Nepal tra il 1820 e il 1843, dobbiamo una vasta raccolta di dati e di manoscritti (423 tra indiani e tibetani, tra i quali diverse copie del Canone buddhista) che egli inviò alle biblioteche di Londra, Oxford, Parigi e Calcutta, nonché a numerosi studiosi.
  • Eugène Burnouf (1801-1851), che nel 1844 pubblicò l'Introduction à l'Histoire du Bouddhisme Indien grazie anche ai 147 manoscritti a lui inviati da Brian Houghton Hodgson a cui Burnouf dedicherà Le Lotus de la Bonne Loi (Parigi, 1852), una traduzione del Sutra del Loto.
  • Jules Barthélemy-Saint-Hilaire (1805-1895) pubblicò nel 1855 Du Bouddhisme e nel 1860 Le Boudha et sa religion.

Unitamente agli orientalisti e agli storici delle religioni, anche i filosofi iniziarono ad occuparsi delle religioni orientali e quindi del Buddhismo. In particolar modo Arthur Schopenhauer (1788-1860)[13] e Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831)[14].

In particolare nell'opera di Schopenhauer si osserva un sistematico richiamo di paragone tra le religioni dharmiche dell'Oriente (Buddhismo e Brahmanesimo) con le religioni abramitiche dell'Occidente (cristianesimo ed ebraismo).

Così, ad esempio, nei Parerga e paralipomena (1851):

«Una religione, che ha a suo fondamento un singolo avvenimento, verificatosi in un dato luogo e in un dato tempo, del quale essa vuol fare il punto di svolta del mondo e di ogni esistenza, ha un fondamento talmente debole, che è impossibile che essa possa sussistere appena un po' di riflessione sia cominciata a diffondersi fra la gente. Quanto saggia è per contro nel buddhismo la supposizione di mille Buddha! per non fare la figura del cristianesimo, nel quale Gesù Cristo ha redento il mondo e fuori di lui non è possibile altra salvezza, - ma quattromila anni, i monumenti dei quali in Egitto, in Asia e in Europa si ergono nella loro magnificenza, non seppero nulla di lui, e perciò quei secoli, con tutto il loro splendore, dovevano di colpo andare al diavolo!.»

Sempre confrontandosi con il Buddhismo, Schopenhauer aveva chiuso il Libro quarto, l'ultimo libro de Il mondo come volontà e rappresentazione (1819), riferendosi al terrore del "nulla":

«Discacciarla, quella impressione, invece d'ammantare il nulla, come fanno gli'Indiani, in miti e in parole prive di senso, come sarebbero l'assorbimento in Brahma o il Nirvana dei Buddhisti.»

Tuttavia, come nota Icilio Vecchiotti, le informazioni veicolate da tutti questi studiosi erano ancora del tutto inadeguate per comprendere in modo completo e corretto la dimensione del Buddhismo:

«Già pur nell'ambito della filosofia indiana nel suo complesso [...] lo Schopenhauer non ha le conoscenze superiori a quelle degli altri studiosi del tempo, come ad esempio Hegel, né ha conoscenze linguistiche adeguate (ignorò sempre il pāli ed ebbe al massimo qualche modestissima conoscenza di sanscrito). Si pensi poi per quanto riguarda il Buddhismo in particolare, che un'opera come quella di Burnouf, Introduction à l'Histoire du Bouddhisme Indien,, uscì almeno qualche anno prima della morte del filosofo, che senza dubbio la lesse ma senza potervi trovare alcun riferimento alla dottrina del dharma, che lo stesso Burnouf ignorò, anche gli interrelati sviluppi del concetto di nirvāṇa, che tanto più furono ignorati dallo stesso Schopenhauer ...»

Questo spiegherebbe quello che Lionel Obadia ha definito l'"Utopia per eccellenza: il buddhismo come filosofia":

«Dall'Ottocento agli inizi del Novecento uno dei tratti più costanti delle interpretazioni del buddhismo consiste nel non riconoscergli lo statuto di religione. Questo argomento, uno dei temi classici dell'orientalismo erudito ottocentesco, si ripresenta con forza alla fine del Novecento per giustificare il successo del buddhismo nelle società occidentali moderne. La sua trasfigurazione in una "non-religione" si spiega in primo luogo con la conoscenza parziale e selettiva che gli occidentali ne avevano (e ne hanno tuttora) [...].»

Ma vi sono anche altre ragioni di questa "utopia":

«Per secoli, secondo gli europei, le sole vere religioni sono state le tradizioni del libro (i monoteismi): il cristianesimo, l'islam e il giudaismo. I criteri di definizione delle religioni non si sono mai applicati al buddhismo, allora (e spesso anche oggi) descritto come privo di una figura divina, di un credo, di una dogmatica. Nel pensiero occidentale dell'Ottocento esso non poteva rappresentare una teologia[15] e tuttavia doveva necessariamente essere pensato in termini classificatori, facendo riferimento alle grandi religioni [...].»

  1. ^ J. Filliozat. Les étapes des études bouddhiques, in R. de Berval (a cura di) Présence du bouddhisme, Parigi, Gallimard, 1986, pagg. 369-79.
  2. ^ S. Batchelor, The Awakening of the West. The Encounter of Buddhism and Western Culture. Londra, Aquarian, 1994.
  3. ^ G. Gnoli (a cura di), Il manicheismo: Il mito e la dottrina: testi manichei dell'Asia centrale e della Cina, vol. II, Mondadori, Fondazione Lorenzo Valla, Milano, 2008, ISBN 88-04-57385-6.
  4. ^ Origine di questa leggenda è l'opera Vita dei santi Barlaam e Josafat, di Giovanni Damasceno (676-749). Nel XVI secolo il cardinale Cesare Baronio (1538-1607) inserì i due "santi" nel martirologio romano.
  5. ^ Jurgis Baltrušaitis. Moyen Âge fantastique (1955), trad. it. Il Medioevo fantastico. Antichità ed esotismi nell'arte gotica. Milano, Adelphi, 1993.
  6. ^ Dalla resa in cinese in (佛) del termine sanscrito Buddha.
  7. ^ Beverley Foulks (Harvard University, Ph.D. Candidate). Duplicitous Thieves: Ouyi Zhixu's Criticism of Jesuit Missionaries in Late Imperial China. Chung-Hwa Buddhist Journal (2008, 21:55-75)
  8. ^ Julien Ries. I cristiani e le religioni. Milano, Jaca Book, 2006, pag.349.
  9. ^ Giangiorgio Pasqualotto, Il Buddhismo. Milano, Mondadori, 2003, pag. 93.
  10. ^ I primi studi sanscriti furono avviati dai gesuiti fin dal XVI secolo, ma la prima cattedra di sanscrito è datata 1814 presso il Collège de France e fu affidata a Antoine-Léonard Chézy (1773-1832).
  11. ^ Nel 1784 viene fondata l'"Asiatic Society of Bengala", presieduta da sir William Jones, che avviò le pubblicazioni dell'Asiatick Researches. Ma solo nel 1881 viene fondata da Thomas William Rhys Davids (1843-1922) la "Pali Text Society" dedicata alla traduzione dei testi buddhisti del Canone pāli.
  12. ^ Roger-Pol Droit. Le culte du néant: les philosophes et le bouddhisme. Parigi, Seuil, 1997.
  13. ^ Cfr., tra gli altri, Peter Abelson. Schopenhauer and Buddhism Philosophy East and West Volume 43, n. 2, aprile 1993, pagg. 255-78, University of Hawaii Press.
  14. ^ Hegel denominava, a partire dal 1827, il Buddhismo come Religions des Insichseins ("religione della interiorità"), ultima propaggine delle Unmittelbare Religion. Per una disamina dello studio delle religioni in Hegel, cfr. tra gli altri, Marcello Monaldi Hegel e la storia: nuove prospettive e vecchie questioni, Guida, 2000.
  15. ^ R.P. Droit. Op.cit.

Voci correlate

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