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Giulio Bedeschi

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Giulio Bedeschi (1915 – 1990), militare e scrittore italiano.

Centomila gavette di ghiaccio

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I
La tradotta si avvicinava al mare.
I soldati sedevano quieti e silenziosi, fumavano, guardavano dal finestrino: molti stavano addentando con tranquilla costanza polli e ciambelle, metodici nel tributo d'omaggio alla cucina materna; tenendo a mezz'aria una fetta d'arrosto o di salame casalingo, masticavano lentamente guardando a occhi socchiusi la campagna placida.
Da qualche vagone veniva la voce di piccoli gruppi che s'ostinavano a cantare qualche vecchio ritornello militare, ma senza entusiasmo.
Come ragazzi, i soldati ad un tratto s'accalcarono ai finestrini: il mare!
Nell'imminenza della sera l'Adriatico s'acquetava nella pace dell'ora, ondulando qua e là, respiro più che moto; trapassava a tinte oscure, acquistando grado a grado compattezza e immobilità.
I paesi rivieraschi passavano uno ad uno, salutati dal fischio della locomotiva; ad ogni successivo incontro, nonostante gli ordini di oscuramento, le luci delle case apparivano infittite quanto più la sera s'incupiva e rivelavano la tranquillità delle famiglie riunite attorno al lume e alla tavola.
Nel treno in corsa le voci allora diradavano e cadevano, da nessuno raccolte; ognuno, tranquillo al proprio posto, affondava nel pensiero di casa sua.

Citazioni

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  • Strana terra, la Russia. Per mezze giornate il treno procedeva su un terreno ondulante, fra campi di girasole che si estendevano fin dove l'occhio riusciva a distinguere qualcosa. Linee sterminate; non si vedeva una casa, un albero, un uomo. S'intravedeva poi all'improvviso in una conca un agglomerato di casupole che scompariva tosto, seguito dalla vastità di altra terra rinsecchita. Per ore, per giorni. Isolato e sperduto, ogni tanto l'occhio trovava qualche punto d'appoggio in solitarie ruote a pala, simili a quelle dei mulini a vento. Immobili anch'esse, protendevano le scarne braccia verso la terra e il cielo come a chiedere pietà per quel loro abbandono. (Tempo terzo, Capitolo XIII, p. 135)
  • Era buona paglia asciutta quella su cui gli alpini finalmente dormivano, perfino profumata perché conservava un lontano odore di campi e d'estate, odore di terra che si screpola al sole; il più bel sogno per chi rischia di morire di freddo; era quasi come mormorare «Italia...» all'orecchio d'uno qualsiasi di quei dormienti accucciati uno a ridosso dell'altro nell'isba del comando della ventisei, o in quelle accanto, sotto la luna che faceva brillare l'alta coltre di neve che ricopriva Popowka. (Tempo quarto, Capitolo XXIII, p. 288)
  • Sulla neve di Russia la colonna avanzava ininterrottamente puntando all'ovest, dolorando per centomila membra ma instancabile, infrenabile nell'intero corpo in movimento; abbandonava sulla neve i relitti procedendo senza tregua, ed erano ormai corpi vivi che si reclinavano sulla neve, corpi d'uomini che si abbattevano di schianto o poggiavano il ginocchio incapaci a sollevarlo e si chinavano quindi in giù, sempre più in giù con le braccia che affondavano fino al polso, poi fino al gomito, tirate giù dal demone della neve; l'uomo in ginocchio s'afflosciava lentamente, vinto dal richiamo irresistibile [...] la neve è morbida come un materasso e non è neppure fredda; si può appoggiarvi perfino la guancia e la fronte senza danno, pare un cuscino, per un minuto solo ci si può stare... i compagni poi si possono raggiungere in fretta, dopo il riposo... questo buon riposo... sulla neve... la neve... un cuscino... non c'è freddo... né fame... né stanchezza... solo sonno... un po'... di sonno... sulla... neve... (Tempo quarto, Capitolo XXV, p. 316-17)

– In vettura! In vettura, si riparte! – gridavano gli addetti ferroviari sospingendo gli alpini ai carrozzoni. Gli alpini salivano ubbidienti, trasognati, era un incanto riudire le voci italiane.
– Chiudere i vetri dei finestrini! Chiudere i finestrini! – gridava ora il personale passando dinanzi alle vetture; e avvicinandosi agli sportelli dava un secco giro con la chiave di servizio e li sbarrava.
– Nessuno esce più! Alle stazioni è vietato affacciarsi! – ingiungevano le voci imperiose; – chiudere i vetri dei finestrini!
– Che roba è questa? – si cominciò a gridare dall'interno dei vagoni.
– Non siamo bestie!
– Aprite! Aprite! – urlavano ormai gli alpini riabbassando i vetri e scuotendo invano le maniglie.
–Siamo in Italia!
– Siamo gli alpini...! – Siamo gli alpini! – gridavano.
Sulla pensilina, dinanzi al vagone della ventisei stava immobile un ferroviere, con le mani nelle tasche dei pantaloni.
– La popolazione non vi deve vedere: è l'ordine – spiegò seccamente al più vicino grappolo d'uomini che si affannavano sbracciandosi dal finestrino.
– Non abbiamo la peste, noi! Siamo gli alpini che tornano dalla Russia, cavàllo vestío da ómo! – gli gridò esasperato Scudrèra, mentre il treno già si muoveva.
– Che alpini o non alpini! Ma vi vedete? – urlò allora ai rinchiusi il ferroviere; – vi accorgete sì o no, Cristo, che fate schifo?

Bibliografia

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  • Giulio Bedeschi, Centomila gavette di ghiaccio, Mursia, Milano 1963.

Altri progetti

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Opere

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