Il concorso del 1401 che ha cambiato la storia dell'arte: la sfida tra Ghiberti e Brunelleschi


Per convenzione si fa iniziare il Rinascimento fiorentino con il celeberrimo concorso del 1401, quando due dei più grandi artisti del tempo, Lorenzo Ghiberti e Filippo Brunelleschi, si sfidarono per la Porta Nord del Battistero di Firenze. Ecco come andarono le cose.

Corre l’anno 1401 quando l’Arte di Calimala, una delle sette Arti Maggiori di Firenze, ovvero le corporazioni che tutelano gli interessi delle varie categorie professionali (quella di Calimala è l’associazione dei mercanti di tessuti), bandisce un concorso per scegliere l’artista che realizzerà la decorazione della Porta Nord del Battistero di Firenze, che seguirà quella, già esistente, realizzata tra il 1330 e il 1336 da Andrea Pisano (Andrea di Ugolino da Pontedera; Pontedera, 1290 circa - Orvieto, 1348/1349) sulla porta meridionale. Il tema su cui l’Arte di Calimala chiede ai concorrenti di confrontarsi è il sacrificio d’Isacco, ovvero un tema che gode di un’iconografia ben codificata: ognuno di loro dovrà sviluppare il tema entro la forma quadrilobata, della misura di quarantacinque per trentotto centimetri, delle ventotto formelle che decoreranno la porta (il quadrilobo delle formelle è un quadrato sistemato in obliquo, come un rombo, dove al centro di ogni lato si apre un semicerchio). <(è>

Al concorso partecipano sette artisti: Filippo Brunelleschi (Firenze, 1377 - 1446), Lorenzo Ghiberti (Pelago, 1378 - Firenze, 1455), Jacopo della Quercia (Siena, 1374 circa - 1438), Francesco di Valdambrino (Siena?, 1363 - Siena, 1435), Simone da Colle (Colle di val d’Elsa, ? - XIV secolo), Niccolò di Luca Spinelli (Arezzo, ? - XIV secolo) e Niccolò di Pietro Lamberti (Firenze, 1370 circa - 1425 circa). La giuria è invece composta da ben trentaquattro giudici. A raccontare lo svolgimento del concorso è lo stesso Ghiberti nei suoi Commentari, il trattato scritto in forma di memoriale tra il 1452 e il 1455: “Per tutte le terre d’Italia moltissimi dotti maestri vennono per mettersi a questa prova et a questo combattimento. [...] Fummo innanzi agli operai di detto tempio. Fu a ciascuno dato quattro tavole d’ottone, la dimostrazione vollono i detti operai e Governatori di detto tempio ciascuno facesse una istoria di detta porta, la quale storia elessono fusse la immolazione d’Isaac, e ciascuno de’ combattitori facesse una medesima istoria. Condussonsi dette pruove in uno anno, e quello vinceva doveva esser dato la vittoria”. Ghiberti racconta poi che a svolgere effettivamente la prova saranno sei artisti (non sappiamo però quale sia stato lo scultore che ha optato per il ritiro dalla gara) e che “mi fu conceduta la palma della vittoria da tutti i periti e da tutti quelli si provarono meco. Universalmente mi fu conceduta la gloria senza alcuna eccezione. A tutti parve avessi passato gli altri in quello tempo senza veruna eccezione con grandissimo consiglio et esaminazione d’uomini dotti”.

Ghiberti, dunque, sarebbe stato l’unico vincitore, secondo il suo racconto. Tuttavia, nonostante l’artista si incensi molto da sé nei Commentari, è probabile che le cose siano andate diversamente, dal momento che Antonio Manetti (Firenze, 1423 - 1497), umanista e biografo di Brunelleschi, nel racconto della vita di quest’ultimo fornisce una versione dei fatti totalmente diversa. Secondo Manetti, Brunelleschi finisce l’opera prima di Ghiberti, ma non solo: pare che il collega più giovane avesse “piuttosto che no paura della virtù di Filippo, perché ella appariva assai”, ragion per cui Ghiberti chiede incessantemente consigli ai suoi colleghi (orafi, pittori e scultori) e cerca di informarsi costantemente sullo stato d’avanzamento della formella di Brunelleschi. Alla fine, stando al racconto di Manetti, la vittoria viene attribuita a parimerito a Ghiberti e Brunelleschi: i membri della giuria ritennero “che amendue e modelli erano bellissimi, e che per loro, raguagliato ogni cosa, e’ non vi sapevano discernere vantaggio, e che, perché l’opera era grande e voleva gran tempo e grande spesa, che l’allogassino parimente a chiascheduno e che fussino compagni”. Alla fine però l’incarico tocca a Ghiberti perché, sempre seguendo la biografia di Brunelleschi, l’architetto avrebbe voluto condurre l’impresa da solo, e sapendo di dover dividere l’incarico preferisce lasciarlo al collega. Non sappiamo come realmente siano andate le cose, perché purtroppo ci sono giunti soltanto racconti di parte: sta di fatto che il 23 novembre del 1403 Ghiberti firma il contratto che gli assegna l’esecuzione della decorazione della porta nord del Battistero di Firenze.

Il Battistero di Firenze. Foto Lucarelli
Il Battistero di Firenze. Foto Lucarelli


Andrea Pisano, Porta sud del Battistero di Firenze (1330-1336; bronzo dorato, 490 x 280 cm; Firenze, Museo del Duomo)
Andrea Pisano, Porta sud del Battistero di Firenze (1330-1336; bronzo dorato, 490 x 280 cm; Firenze, Museo del Duomo)

Le uniche due formelle del concorso che ci siano rimaste sono proprio quelle di Ghiberti e Brunelleschi: il confronto tra le prove dei due artisti è menzionato in qualunque manuale di storia dell’arte, perché è il momento di uno scontro tra due epoche diverse, con l’opera di Ghiberti ancora legata al gusto tardogotico e quella di Brunelleschi che invece è la scultura che, almeno secondo le convenzioni scolastiche, sancisce l’avvio del Rinascimento. La formella di Ghiberti, più ordinata e con il paesaggio che assume un ruolo più centrale rispetto alla formella di Brunelleschi, è fatta per esser letta da sinistra verso destra: sul lato sinistro si vedono due inservienti che parlano tra loro sopra un asino, con in alto il montone che verrà poi sacrificato al posto di Isacco, mentre a destra assistiamo alla scena principale, divisa nettamente da quella secondaria per mezzo della parete di roccia che funge così anche da espediente narrativo, per separare i due momenti del racconto. Abramo, in piedi, tiene tra le mani il coltello e sta per avventarsi su Isacco, inginocchiato sopra l’ara sacrificale, ormai pronto ad accettare il suo destino. Nell’angolo in alto notiamo però l’angelo che sopraggiunge per fermare Abramo, dicendogli che adesso la sua fede in Dio è provata. La formella di Brunelleschi è invece concepita in modo totalmente diverso, ovvero per esser colta in una visione unitaria: la scena del sacrificio è al centro, Isacco è in una posa contorta e pare quasi voglia divincolarsi, Abramo si sta lanciando su di lui con tutto il corpo, sollevandogli addirittura la testa con la mano sinistra, e l’angelo deve intervenire di forza per fermarlo, bloccandogli materialmente il braccio con la propria mano. I due inservienti sono invece sistemati ai piedi della rupe, disposti di fianco all’asino, e l’ariete è di fronte a Isacco, anch’esso più dinamico rispetto alla sua controparte ghibertiana, perché è colto mentre cerca di divincolarsi dal cespuglio nel quale sono rimaste impigliate le sue corna.

Sono molte le differenze che separano le due formelle, con quella di Brunelleschi che appare decisamente più rivoluzionaria rispetto a quella di Ghiberti, che pure si distingue per una maggiore raffinatezza esecutiva e una maggior sapienza tecnica (la formella di Ghiberti è il risultato di una fusione unica, mentre quella di Brunelleschi è fusa in tre pezzi: Ghiberti aveva molta più esperienza del rivale in fatto di fusione del bronzo, e forse anche per questa ragione gli viene assegnata la vittoria). Intanto, in Brunelleschi abbondano citazioni dall’arte classica: l’accompagnatore sulla sinistra richiama lo Spinario, mentre quello di destra sembra una citazione quasi letterale del cosiddetto Arrotino che oggi si trova nella Tribuna degli Uffizi, e per l’Isacco il modello potrebbe essere stato, secondo lo storico dell’arte Richard Krautheimer, un prigioniero inginocchiato raffigurato nell’arco di Costantino a Roma. In Ghiberti solo la figura di Isacco sembra derivare dal Torso di fauno degli Uffizi (noto anche come Torso Gaddi), che però, ha notato lo storico dell’arte Giancarlo Gentilini, non fa parte del tipico repertorio ghibertiano: è possibile che tale inserto gli sia stato suggerito da un qualche collega, a seguito dei confronti che Manetti ricorda nella biografia di Brunelleschi (“in effetti”, scrive Gentilini, “nella Porta Nord le citazioni dall’arte classica saranno assai sporadiche, ma evidentemente Ghiberti aveva intuito che la rinascita dell’antico e il gusto archeologico erano nell’aria e che potevano costituire qualcosa in base al quale si sarebbe esercitato il giudizio: ossia che alcuni degli artisti, dei periti che dovevano stimare la formella avrebbero apprezzato la presenza di richiami alla scultura antica, greca o romana”). Di concezione molto più innovativa è poi il modo in cui Brunelleschi analizza lo spazio: se in Ghiberti tutto l’episodio biblico si svolge su di un unico piano, in Brunelleschi invece si distinguono almeno due piani, quello dei servitori e dell’asino, le figure più aggettanti (addirittura fuoriescono dalla cornice del quadrilobo, mentre Ghiberti, in maniera più ordinata, rimane entro i bordi), e quello della scena principale: un insieme che in certa misura anticipa le ricerche prospettiche dello stesso Brunelleschi.

Lorenzo Ghiberti, Sacrificio di Isacco (1401; bronzo, 45 x 38 cm; Firenze, Museo Nazionale del Bargello)
Lorenzo Ghiberti, Sacrificio di Isacco (1401; bronzo, 45 x 38 cm; Firenze, Museo Nazionale del Bargello)


Filippo Brunelleschi, Sacrificio di Isacco (1401; bronzo, 45 x 38 cm; Firenze, Museo Nazionale del Bargello)
Filippo Brunelleschi, Sacrificio di Isacco (1401; bronzo, 45 x 38 cm; Firenze, Museo Nazionale del Bargello)


Le due formelle esposte al Museo Nazionale del Bargello
Le due formelle esposte al Museo Nazionale del Bargello

A fronteggiarsi sono dunque due visioni e due culture completamente diverse. Ghiberti certamente elimina dalla sua formella gli eccessi decorativistici del gusto tardogotico, aggiornandolo peraltro, come s’è visto, sul nascente interesse per l’arte classica, ma l’andamento sinuoso e cadenzato (si guardino anche i panneggi dei personaggi), la raffinatezza compassata, il generale equilibrio della composizione rimandano agli stilemi più diffusi al tempo, in grado di rassicurare la committenza e il pubblico. Brunelleschi, al contrario, propone un’interpretazione drammatica ed emotiva dell’episodio biblico, che punta soprattutto sui gesti e sull’azione, più che sulla narrazione. Da una parte un rito, dall’altra un dramma. Da una parte una storia che si sviluppa lungo una linea temporale molto più lunga, dall’altra la fotografia di un istante preciso. Si tratta di due modi di leggere l’episodio parimenti caratterizzati da una visione moderna (più vicina agli ambienti umanistici quella di Ghiberti e più prossima al consenso popolare quella di Brunelleschi, ebbe a scrivere lo studioso Alessandro Parronchi). “Da una parte”, ha scritto Antonio Paolucci, “Lorenzo Ghiberti impegnato nella rivitalizzazione, anzi, per meglio dire, nell’adeguamento moderno della tradizione gotica. Dall’altra Filippo Brunelleschi con la sua proposta di visione unitaria e profonda grazie alla quale di nuovo, come in Giotto, il rilievo diventa ‘scatola spaziale... in cui si svolge un’azione drammatica’ (Giovanni Previtali)”.

Lo storico dell’arte Giulio Carlo Argan, sottoponendo a confronto i due rilievi come hanno fatto tutti gli studiosi, ha voluto rispondere a una serie di domande che tanti si fanno osservando le due formelle al Museo Nazionale del Bargello, dove sono oggi conservate. Intanto, chi tra Ghiberti e Brunelleschi è più naturale? Per Argan, è Ghiberti, nella sua ricerca di proporzione e nella sua grande attenzione per il paesaggio, idee che invece sono assenti in Brunelleschi. Secondo Argan, Ghiberti è anche più studioso dell’antico, perché Brunelleschi si limiterebbe a citare, mentre invece Ghiberti “evoca costumi antichi, inserisce ornati classici, ritrova [...] il gusto pittorico e perfino la cadenza poetica dei rilievi ellenistici”. Giova comunque sottolineare che, su questo punto, un altro grande studioso, ovvero Franco Russoli, la pensava in maniera opposta: a suo avviso quelle di Ghiberti erano semplici “citazioni culturali inserite [...] nello svolgimento narrativo naturalistico e nel ritmo formale del gotico ‘tenero’ di Andrea Pisano”, mentre nel caso di Brunelleschi si tratterebbe di “immagini autonomamente rivissute nel loro processo formativo, modelli per il recupero di una diretta rappresentazione di atti reali”. Difficile invece dire chi sia dei due più moderno, perché da una parte Ghiberti aggiorna il gusto tardogotico, dall’altra la modernità di Brunelleschi si ha nel suo rifiuto dell’estetica a cui è ancora legato il rivale. Certamente però Brunelleschi è il più rivoluzionario, soprattutto per il suo modo di affrontare il nuovo spazio del quale “definirà, pochi anni dopo, la struttura, e sarà la prospettiva; ma l’intuizione prima è già in questo rilievo”.

Arte romana, Arrotino (II secolo d.C.; marmo dell'Asia Minore, 105 cm; Firenze, Uffizi)
Arte romana, Arrotino (II secolo d.C.; marmo dell’Asia Minore, 105 cm; Firenze, Uffizi)


Arte greca, Spinario (I secolo a.C.; marmo greco, altezza 84 cm; Firenze, Uffizi)
Arte greca, Spinario (I secolo a.C.; marmo greco, altezza 84 cm; Firenze, Uffizi)


Arte greca, Torso Gaddi (I secolo a.C.; marmo greco, altezza 84 cm; Firenze, Uffizi)
Arte greca, Torso Gaddi (I secolo a.C.; marmo greco, altezza 84 cm; Firenze, Uffizi)

Si è detto poco sopra che, scolasticamente, si tende a far coincidere l’avvio del Rinascimento fiorentino con la formella di Filippo Brunelleschi, in virtù delle sue novità formali e dello strappo lacerante che crea nei confronti della tradizione. Naturalmente tra il prima e il dopo non c’è uno stacco così netto e la prova è la stessa formella di Ghiberti, anch’essa moderna e capace d’interpretare le inclinazioni dell’umanesimo fiorentino: è però vero che le vicende connesse al concorso del 1401, ha scritto lo studioso Francesco Negri Arnoldi, “costituiscono per noi una preziosa testimonianza dell’orientamento del gusto e della cultura artistica fiorentina alla vigilia del grande rinnovamento”. Un contesto, quello della Firenze di fine Trecento-inizio Quattrocento, molto diverso rispetto al resto d’Italia: qui, spiega ancora Negri Arnoldi, il gotico internazionale non rappresentò che “una breve esperienza, una fase di transizione tra due generazioni di artisti. Tutti i maggiori esponenti del tardo-gotico locale mostrano infatti nella loro produzione matura i sintomi o già i riflessi di quel rinnovamento del linguaggio formale che farà di lì a poco di Firenze il più avanzato centro artistico d’Europa; come d’altronde i primi grandi interpreti dell’arte nuova recano nelle loro opere giovanili chiari i segni del gusto e della cultura gotici assimilati in età formativa”.

Nessuna cesura netta, dunque, nonostante le convenzioni fissino al 1401 l’inizio “ufficiale” del Rinascimento: in realtà, come sempre, la storia non conosce barriere così drastiche e decise. L’inizio del Quattrocento è a tutti gli effetti un periodo di rilevanti trasformazioni dove non si distinguono avvicendamenti precisi tra una fase e l’altra, ma nel quale il concorso del 1401 può essere letto come una vicenda, se non decisiva, di sicuro estremamente significativa nel percorso verso la nascita di un nuovo linguaggio.

Bibliografia di riferimento

  • Elena Capretti, Filippo Brunelleschi, Giunti, 2003
  • Antonio Paolucci, Le porte del Battistero di Firenze: alle origini del Rinascimento, Franco Cosimo Panini, 1996
  • Francesco Negri Arnoldi, La scultura del Quattrocento, Utet, 1994
  • Luciano Berti, Antonio Paolucci (a cura di), L’età di Masaccio. Il primo Quattrocento a Firenze, catalogo della mostra (Firenze, Palazzo Medici Riccardi, dal 7 giugno al 16 settembre 1990), Electa, 1990
  • Mina Bacci, Giulietta Chelazzi Dini, Maria Grazia Ciardi Dupré Dal Poggetto, Gabriele Morolli (a cura di), Lorenzo Ghiberti. Materia e ragionamenti, catalogo della mostra (Firenze, Galleria dell’Accademia e Museo Nazionale di San Marco, dal 18 ottobre 1978 al 31 gennaio 1979), Centro Di, 1978
  • Giulio Carlo Argan, Storia dell’arte italiana, Sansoni, 1977
  • Franco Russoli, Scultura Italiana. Il Rinascimento, Mondadori, 1967

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Gli autori di questo articolo: Federico Giannini e Ilaria Baratta

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