Tutto cominciò da un pellegrinaggio. Nell’anno giubilare 1500, Battista Graziani detto Garzadori si recò in Terra Santa e, giunto sulle rive del Giordano, fece voto di costruire un sacello, dedicandolo al santo che battezzò Cristo proprio in quelle acque, se fosse tornato sano e salvo in patria. Il viaggio di ritorno evidentemente andò bene e il 26 novembre di quello stesso anno Garzadori – personaggio di spicco dell’economia vicentina dell’epoca, poeta dilettante e conte palatino – chiese al priore della chiesa di Santa Corona di Vicenza di concedergli uno spazio per costruire una cappella che sarebbe stata destinata anche a tabernacolo sepolcrale della famiglia. I lavori cominciarono nel 1501 e varie fonti antiche descrivono le operazioni per la messa in opera dell’apparato, costituito da colonne tortili o ricoperte di foglie a rilievo, da cornici, rilievi, figure a tutto tondo, inserti in porfido, in lapislazzuli o in marmi preziosi provenienti proprio dai territori visitati durante il pellegrinaggio. L’opera viene generalmente attribuita a Tommaso da Lugano e Bernardino da Como, probabilmente con la partecipazione di Rocco da Vicenza.
Al centro di quella elaborata macchina scenica – animata da una fantasmagorica popolazione legata all’acqua, oltre a cherubini, festoni di fiori e frutti e cornucopie – il Garzadori volle un’ancona raffigurante il Battesimo di Cristo e commissionò l’opera a uno dei pittori più celebri nell’area veneta: Giovanni Bellini. A quei tempi l’artista si stava dedicando prevalentemente alla committenza profana, e in particolare al rifacimento dei teleri per Palazzo Ducale di Venezia, incarico che gli valse la nomina di pittore ufficiale della Serenissima nel 1483. Il suo ruolo di pittore di soggetti sacri che ricoprì fino agli anni Ottanta del XV secolo, era stato preso da Cima da Conegliano, ma come vedremo il ritorno alle scene religiose fu per l’anziano Bellini un’importante occasione per rinnovare il suo linguaggio, stabilendo allo stesso tempo nuovi modelli a cui si ispirarono gli artisti più giovani.
Osserviamo quindi la grande pala d’altare: in alto, tra nuvole vaporose e teste di cherubini, campeggia Dio Padre, che tuttavia a uno sguardo attento non rappresenta l’ideale biglietto da visita di un maestro quale fu Giovanni Bellini. Non a caso, visto che la parte superiore della pala già a metà Settecento era profondamente compromessa e fu necessario un intervento di restauro. Il rifacimento di quella porzione fu affidato a Giuseppe Gallo Roberti, restauratore già molto apprezzato per il ripristino della pala di Giorgione a Castelfranco; il lavoro tuttavia non soddisfò le aspettative e giustamente provocò reazioni negative. Tuttavia quella figura di qualità discutibile è ancora oggi funzionale a far percepire la rigorosa direttrice verticale lungo cui si sviluppa tutta la scena, e che comincia al di fuori del dipinto: dalla statua del Cristo Risorto, culmine dell’altare, all’altorilievo con la Madonna allattante il bambino, poi appunto il Dio Padre, la colomba dello Spirito Santo, la mano con il bacile del Battista e infine la figura ieratica e scultorea di Cristo, vero e proprio “asse del mondo”, il cui sguardo magnetico cattura quello di chi lo osserva.
Ad attirare l’attenzione è anche la macchia di colore sulla sinistra, dove tre figure femminili assistono al Battesimo. Si tratta delle personificazioni delle virtù teologali: la Fede, in veste gialla e con le mani giunte in preghiera, la Carità, con la tunica rossa di Cristo, e la Speranza con il manto blu del Salvatore. A far da controcanto c’è Giovanni Battista, dipinto con toni terragni e posto più in alto di Cristo che invece è parzialmente immerso nelle limpidissime acque del Giordano. Non si può non notare una presenza apparentemente bizzarra: su un ramo tagliato in basso a destra compare un pappagallo rosso con le ali verdi: la critica si è spesso interrogata in merito a questa presenza, e Cavalcaselle giunse addirittura a ritenerla estranea alla composizione originale, nonostante una sua lettura iconologica ne riveli la perfetta coerenza con la scena del Battesimo. Lo illustra bene Fernando Rigon nella monografia Bellini a Vicenza. Il Battesimo di Cristo in Santa Corona (a cura di M. E. Avagnina, G. C. F. Villa, Comune di Vicenza, Musei Civici, Biblos, 2007). Il variopinto pennuto era infatti noto per saper imitare la voce umana e gli si attribuiva la capacità di pronunciare la parola “ave”, saluto dedicato alla Madre di Gesù. Inoltre nei bestiari medievali il pappagallo veniva descritto come un animale pulitissimo: evidente quindi l’analogia con Cristo nato senza peccato e il legame con il rito di purificazione.
Abbiamo lasciato per ultima l’analisi di un fattore cruciale nella pittura di Giovanni Bellini: il paesaggio. “Il manto della natura rimane per lui un insieme sempre nuovo di bellezza quasi miracolosa, la cui indagine completa richiederà più di una vita intera, ed è perciò rinnovabile all’infinito”, ha scritto Mario Lucco (in Giovanni Bellini, catalogo della mostra a cura di M. Lucco, G.C.F. Villa, Roma, Scuderie del Quirinale, 2008-2009, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo, 2008, p. 24). Dalla metà degli anni Settanta del Quattrocento l’artista si concentrò soprattutto sui problemi di luce e di paesaggio, raggiungendo esiti altissimi: la sua è “una tavolozza di nuova tonalità, articolata sulla diffusa luminescenza di brillanti cromie a dare vita a un’arte lirica, dove l’intima essenza di un panico sentimento cristiano è resa da un paesaggio non più sfondo ma parte essenziale della pittura, sintesi della storia e dei sentimenti umani”, commenta Giovanni Carlo Federico Villa nel catalogo già citato. E che nella pala di Vicenza il paesaggio sia protagonista, è evidente al primo sguardo, quando si nota anche la fascia dalle tonalità arancioni nel cielo, funzionale a separare semanticamente l’ambito divino, di Dio Padre, da quello terreno di suo figlio incarnato e del mondo naturale. Esplicita espressione del naturalismo di Bellini sono le specie vegetali riconoscibili nella loro precisione botanica e le atmosfere digradanti che sfumano nei monti celesti (a proposito di paesaggio vicentino, l’indimenticato Luigi Meneghello, nel suo Pomo pero del 1974, scriveva: “Il piano inferiore del mondo ha un orlo di monti celesti ed è colmo di paesi”). Val la pena citare un’altra antica fonte, il seicentesco Mauro Boschin, che colse benissimo l’approccio alla natura del pittore veneziano: “Zambelin se puol dir la primavera / Del Mondo tutto, in ato de Pitura: / Perché da lù deriva ogni verdura, / E senza lù l’arte un inverno giera”. Bellini è primavera, l’arte prima di Bellini è inverno.
Il Battesimo di Cristo di Vicenza è considerato un vertice della maturità del suo artefice, che in quel momento doveva essere quasi settantenne e nonostante ciò si confrontava con il più giovane, ma già affermatissimo, Cima da Conegliano: il dialogo è evidente nell’analogo soggetto dipinto circa dieci anni prima da quest’ultimo per la chiesa di San Giovanni in Bragora di Verona, ma Bellini risponde al rivale con una “vera riforma visiva”, un “nuovo accordo tra umanità divina e natura tramite figure calate in intenso dialogo con la realtà di un paesaggio atmosferico, suggestivo più che descrittivo, carico di un ben calibrato pathos” (Villa, scheda Battesimo di Cristo, in Giovanni Bellini, cit., p. 284). Un accordo a cui senz’altro guardarono Giorgione e Tiziano, che nei primi anni del Cinquecento si stavano affacciando sulla scena artistica della Serenissima. La fortuna iconografica delle invenzioni belliniane nella pala di Vicenza è peraltro testimoniata dalle citazioni in opere successive di Vittore Belliniano, di Benedetto Diana, di Francesco di Girolamo da Santacroce e in una fedele incisione di Girolamo Mocetto.
Tornando idealmente all’interno della chiesa di Santa Corona, nel 1523 l’altare voluto dal Garzadori accolse le spoglie del suo committente: Battista volle essere sepolto in veste da pellegrino, indossando la croce rossa gerosolimitana e con in mano la palma simbolo del pellegrinaggio in Terra Santa. A vigilare sulla salma, e a ricordare il potere salvifico del sacramento del battesimo, sta ancora oggi la pala di Giovanni Bellini.
Il Battesimo di Bellini ebbe una vicenda conservativa piuttosto complessa che vide spesso opposti schieramenti tra chi invocava interventi di restauro e chi sosteneva la necessità di non toccarla. Riassumendo i principali passaggi, riportati per esteso nel saggio di Maria Elisa Avagnina pubblicato in Bellini a Vicenza, già a metà Settecento la porzione superiore del dipinto risultava gravemente danneggiata, ma il rispetto reverenziale nei confronti dell’opera del maestro veneziano allontanò le ipotesi di un risanamento. Nel 1819 il Comune di Vicenza espresse forti preoccupazioni per il degrado dell’opera, ma anche allora nulla si fece e solo nel 1839 si riprese il problema, affidando il restauro al già citato Gallo Lorenzi, professore alla Regia Accademia di Belle Arti di Venezia. Questi intervenne pesantemente sia sulla superficie pittorica sia sul supporto ligneo e il risultato venne commentato ad esempio da Cavalcaselle, allora considerato un’autorità: “A Vicenza il famoso quadro col Battesimo […] fu ridotto ad un cadavere”. Pochissimi anni dopo, nel 1846, il dipinto continuava a manifestare sollevamenti degli strati pittorici e preparatori tali da richiedere interventi di “saldatura”, che si ripeterono nel 1915 e nel 1919, prima e dopo il trasferimento a Firenze per scongiurare rischi derivanti dalla prima guerra mondiale. Seguì il restauro di Mauro Pelliccioli di Milano, nel 1935, e quello di Ottorino Nonfarmale nel 1978. Il Battesimo di Bellini dovette subire una nuova “cura” tra settembre 2006 e febbraio 2007: la vernice applicata in vecchi restauri era ingiallita e fu eliminata, così come i rifacimenti alterati e privi di valore figurativo; si recuperarono tutte le porzioni di colore originale, rispettando però i rifacimenti laddove era scomparsa la pellicola pittorica stesa da Bellini. Infine un recentissimo intervento concluso nel maggio 2022 ha ripulito l’altare Garzadori, che appariva oscurato da deposito di particolato, mentre sulla pala si sono predisposte ulteriori azioni conservative volte a risanare distacchi e lacune, nonché le proprietà di supporto strutturali dell’opera.
L'autrice di questo articolo: Marta Santacatterina
Marta Santacatterina (Schio, 1974, vive e lavora a Parma) ha conseguito nel 2007 il Dottorato di ricerca in Storia dell’Arte, con indirizzo medievale, all’Università di Parma. È iscritta all’Ordine dei giornalisti dal 2016 e attualmente collabora con diverse riviste specializzate in arte e cultura, privilegiando le epoche antica e moderna. Ha svolto e svolge ancora incarichi di coordinamento per diversi magazine e si occupa inoltre di approfondimenti e inchieste relativi alle tematiche del food e della sostenibilità.