Mafia messinese

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La mafia messinese giornalisticamente definita anche Camorra Peloritana[1], è un sistema di cosche mafiose che operano nella Città metropolitana di Messina e che intrattengono rapporti con la 'Ndrangheta e con le maggiori famiglie mafiose del resto della Sicilia, in particolare catanesi e palermitane. Messina e il territorio circostante di fatto rappresentano il confine tra Cosa Nostra siciliana e 'Ndrangheta calabrese. La realtà mafiosa messinese venne messa maggiormente in luce dal Maxiprocesso di Messina nel 1986 per reati di associazione a delinquere di stampo mafioso, traffico di stupefacenti, estorsione e omicidio. Altre attività illecite emerse in seguito sono: riciclaggio di denaro, contrabbando di armi, scambio elettorale politico-mafioso, sfruttamento della prostituzione, scommesse clandestine e furti con conseguenti ricettazioni[2][3][4][5][6]. Le organizzazioni criminali del messinese sono originarie delle periferie della città e di alcuni comuni della provincia. Zone contraddistinte per la loro presenza criminale sono: Giostra nella zona nord, Mangialupi, Santa Lucia Sopra Contesse, CEP, Bordonaro, Gazzi e Aldisio nella zona sud, Camaro, Gravitelli e Provinciale in prossimità del centro (non facenone parte), mentre Barcellona Pozzo di Gotto, Mazzarrà Sant'Andrea, Tortorici, Mistretta e la valle dell'Alcantara in provincia[7].

La mappa del centro di Messina e delle zone limitrofe
Mappa della città metropolitana di Messina (ex provincia)

Origini della mafia nella città di Messina: testimonianze storiche

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Esistono testimonianze che evidenziano come la mafia a Messina e dintorni, contrariamente a quanto si dice, abbia radici abbastanza antiche; secondo Giuseppe Borghetti, prefetto di Messina nel lontano 1875 «La maffia a Messina ebbe ed ha capi supremi e sapienti, in secondo rango i bravi in guanti gialli, in terzo gli accoltellatori e i sicari, in ultima linea i ladri»[8].

La guerra di mafia a Messina e il restyling del modello calabrese

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Tuttavia i fenomeni maggiormente considerati che riguardano il contesto mafioso messinese, risalgono agli anni 70, in cui il potere criminale era esercitato dal gruppo di Lorenzino Ingemi. Negli anni 80 il boss del quartiere Giostra Gaetano Costa, soprannominato "facci i sola" si separò dalla compagine di Ingemi, e si affiliò ad una 'ndrina calabrese, facendosi strada nella gerarchia criminale della 'ndrangheta e importando a Messina il modello organizzativo criminale tipico della Calabria, adattandolo alla realtà metropolitana messinese. Membri di spicco del clan Costa erano: Domenico Di Blasi (detto "occhi i bozza"), Vincenzo Bitto, Sebastiano Valveri, Placido Cambria, Pasquale Castorina, Giuseppe Leo e Domenico Cavò. Successivamente le compagini criminali nel capoluogo divennero due: quella con a capo Gaetano Costa e i suoi vice, e quella capitanata da Placido Cariolo e Letterio Rizzo (detto "u ferraiolu"), il quale inizialmente si era messo al comando di una piccola banda per regolare dei tornaconti personali e in un secondo momento si affiliò al clan Cariolo. Il clan Costa ed il clan Cariolo entrarono in guerra tra loro per il controllo della città, e disponevano di armi di vario tipo, giubbotti antiproiettile e radio ricetrasmittenti. La rivalità tra i due clan messinesi si interrompe con la "Pace di Volterra", chiamata così perchè stipulata dal Costa e dal Cariolo nel carcere di Volterra, al cospetto di altri membri dei due clan che in futuro sarebbero diventati boss, ovvero Giuseppe Leo e Luigi Galli. La conseguenza principale della pace fu una sorta di mistura tra i due clan. Il Cariolo decise di ritirarsi nelle isole eolie, ma alcuni membri del suo clan si fecero strada tra la realtà criminale dei quartieri peloritani, tra cui: Sebastiano Ferrara, Salvatore Pimpo, Rosario Rizzo, Letterio Rizzo e Antonino Cambria[9].

Il legame del boss Costa con la 'Ndrangheta e l'idea della "Cosa Nuova"

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Nel processo "Ndrangheta Stragista" anni dopo, Costa ha rivelato di essere stato inserito nella Ndrangheta per mano dei Piromalli di Gioia Tauro, di aver stretto rapporti con i De Stefano di Reggio Calabria, e di essersi fatto strada tra le fila ndranghetiste fino a divenire membro della "Santa", un gruppo ristretto di ventuno membri di altro profilo criminale appartenenti alla Ndrangheta. Ha anche espresso di essere stato a capo di una forza mafiosa della portata di 300 persone quando era boss di Messina affiliato alla Ndrangheta. Nello stesso processo ha affermato di aver fatto amicizia con Leoluca Bagarella mentre si trovavano entrambi nello stesso carcere a Pianosa e di essere stato incaricato, insieme allo stesso Bagarella, di assassinare Raffaele Cutolo, il capo della nuova camorra organizzata. Le parole del Costa furono: «Conobbi Leoluca Bagarella nel carcere di Pianosa, e crebbe tra di noi questa forma di amicizia anche negativa. Si era instaurato un buon rapporto anche molto confidenziale, su argomenti molto delicati che competevano l’eliminazione di qualche nemico. Lui (Bagarella, ndr) mi aveva anche proposto, che nel caso arrivasse lì a Pianosa, un personaggio, Cutolo, si doveva eliminare. Per sua fortuna a Pianosa non ci arrivò. Lo avremmo dovuto eliminare materialmente io e lui (Bagarella, ndr), in pratica». Inoltre ha dichiarato che in passato Cosa nostra aveva avuto intenzione di aprire un casinò a Taormina e che per discutere di ciò, era stato fatto un summit mafioso tra messinesi, catanesi e palermitani. Costa aveva rapporti con gran parte delle 'ndrine calabresi più potenti, ed era stato informato della possibile creazione, mai realizzata, della cosiddetta "Cosa Nuova", ovvero una nuova ipotetica organizzazione criminale composta da alcune famiglie di Cosa Nostra (soprattutto corleonesi e palermitane) e da alcune ndrine, come la 'Ndrina Piromalli, la 'Ndrina De Stefano, la 'Ndrina Pesce, la 'Ndrina Mammoliti, la 'Ndrina Morabito, la 'Ndrina Mancuso e altre[10][11].

Struttura della 'Ndrangheta

Gli attentati al giudice Providenti e alla Gazzetta del Sud

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Nel 1985 a Messina erano avvenuti fatti parecchio allarmanti, come l'attentato dinamitardo all'abitazione del giudice Francesco Providenti e la bomba esplosa alla redazione della Gazzetta del Sud, quotidiano più importante di Messina e della Calabria[12].

La realtà mafiosa nella costa tirrenica e sui monti Nebrodi negli anni 80

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Nello stesso periodo nella fascia tirrenica della provincia agiva un altro clan, quello dei "barcellonesi", capitanato da Carmelo Milone e che non era coinvolto nelle vicende del capoluogo. Sui monti Nebrodi invece l'egemonia criminale apparteneva alla famiglia di Mistretta, facente parte del mandamento di San Mauro Castelverde, in provincia di Palermo, e, da tale famiglia proveniva Pietro Rampulla, designato in seguito come l'artificiere della strage di Capaci[13][14].

Il maxiprocesso di Messina e la resa dei conti dei clan

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Successivamente alla guerra tra il clan Costa e il clan Cariolo, a causa dei numerosi fatti di sangue avvenuti, venne celebrato nel 1986 un processo penale giornalisticamente definito maxiprocesso di Messina. Tra gli imputati ci furono i membri del clan Costa, del clan Cariolo, del gruppo di Lorenzino Ingemi e del clan barcellonese di Carmelo Milone. Furono utili a tal proposito le dichiarazioni del pentito Giuseppe Insolito ai sostituti procuratori Francesco Providenti, Rocco Sisci, Italo Materia e Pietro Vaccara, che gettarono le basi per il blitz della notte di San Luigi (22 giugno 1985), nel quale centinaia di uomini delle forze dell'ordine irruppero in 190 abitazioni di Messina eseguendo 290 mandati di cattura: 106 boss e gregari vennero arrestati durante il blitz, 144 mandati di cattura vennero notificati in carcere e 40 destinatari di si diedero alla latitanza, tra di essi il boss catanese Benedetto Santapaola, che lo era già da alcuni anni[15][15]. Il maxiprocesso andò molto a rilento a causa della resistenza degli imputati e del caos da essi creato, ma non solo, durante il maxi processo, venne ucciso l'avvocato D'Uva, che si occupava della difesa di ben 13 imputati. Il mandante si pensa fosse stato Gaetano Costa, che durante un'udienza manifestò disapprovazione riguardo la sua strategia di difesa ritenuta troppo morbida[16]. Vennero portati a termine una serie di agguati in diverse zone della città contro alcuni imputati che erano stati rilasciati per decorrenza dei termini di custodia, insieme a spedizioni punitive contro i testimoni di giustizia e le loro famiglie. Le cosche cercarono di vendicarsi di Insolito, principale pentito e testimone al processo, tentando di uccidere entrambi i suoi genitori. Successivamente verranno uccisi quattro imputati, un altro si toglierà la vita, e altre due persone innocenti moriranno per essersi trovate al fianco delle vittime designate. I primi due, l'ex poliziotto Corrado Parisi e Gregorio Fenghi, vengono uccisi in centro a Messina l'8 agosto 1986. L'8 settembre viene freddato Natale Morgana sul viale Giostra. L'8 ottobre, uno degli imputati del maxiprocesso, Pietro Bonsignore, viene eliminato da un commando che irruppe nella sala d'aspetto di una struttura ospedaliera di Ganzirri, dove è ricoverato, e muore anche Nunzia Spina, donna innocente che casualmente si trovava accanto a Bonsignore. In contemporanea, nel quartiere Gazzi, viene eliminato Giovanni Bilardo, il quale era stato accusato di traffico di droga poco tempo prima. Il fatto che gli omicidi fossero avvenuti l'ottavo giorno di ogni mese per tre mesi di fila, potrebbe non essere determinante, ma potrebbe anche voler dire che la cupola messinese volesse dimostrare di avere sotto controllo ogni singolo soggetto coinvolto e di poterlo eliminare in ogni momento. Il 12 ottobre un altro imputato, Pasquale Paratore, si uccide. L'ultimo a morire è Gianfranco Galeani che viene freddato sui gradini di una chiesa nel quartiere Bordonaro[17][18][19]. Dei 245 imputati, 65 furono condannati, mentre 163 furono assolti perché ritenuti non colpevoli, e 17 furono scagionati per mancanza di prove. In totale, furono inflitti 394 anni di carcere, rispetto ai 1020 anni richiesti dall'accusa. Il boss Gaetano Costa ricevette una condanna a tredici anni di reclusione, Placido Cariolo e Carmelo Milone furono condannati a sei anni ciascuno, mentre Lorenzino Ingemi e Luigi Sparacio (braccio destro di Costa) furono assolti. Il crimine di associazione a delinquere di tipo mafioso (art. 416-bis del codice penale) fu riconosciuto solo per ventisette imputati considerati membri del clan Costa, mentre le altre tre cosche non furono classificate come mafiose[20]. Subito dopo la sentenza, il pm Providenti dichiarò alla stampa: “Questa sentenza non corrisponde alla realtà criminale della città. È allarmante, è molto allarmante che abbiano assolto quasi tutti dall'accusa di traffico di stupefacenti, proprio nel momento in cui Messina è invasa dalla droga". Mentre il giudice messinese Giuseppe Recupero rilasciò la seguente dichiarazione in un'intervista: Il maxi non era necessario e qui a Messina esiste sì un'organizzazione criminale, ma non è mafiosa. Il messinese non ha la stoffa, né il carattere, né la personalità del mafioso". In seguito Giuseppe Recupero fu arrestato per legami con la mafia, ciò spiegherebbe la sua dichiarazione[21].

La facciata del tribunale di Messina

Dopo il maxiprocesso, la disgregazione del clan Costa e l'ombra di una nuova guerra

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Verso la fine degli anni '80, a causa della grande pressione giudiziaria derivante dal Maxiprocesso, il clan Costa si frammentò in diversi sottogruppi in lotta tra loro. Questi gruppi si divisero il controllo della città: Sebastiano "Iano" Ferrara e il suo clan presero il controllo del villaggio CEP e dintorni, il clan Mancuso si stabilì a Bordonaro, la cosca Sparacio si insediò a Provinciale e dintorni, e il clan Marchese-Galli si instaurò nel rione Giostra[22].

Il quartiere Bordonaro

La situazione nel versante tirrenico in seguito al maxiprocesso: la faida tra i barcellonesi

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Nei primi anni '90, il clan barcellonese di Carmelo Milone fu gravemente decimato durante la cruenta faida con il boss Giuseppe Chiofalo (noto come Pino) e i suoi alleati, affiliati alla 'ndrangheta e al clan catanese dei Cursoti. Milone stesso fu arrestato e sostituito da Giuseppe Gullotti, che era molto vicino a Nitto Santapaola e in seguito fu condannato all'ergastolo per l'omicidio del giornalista Beppe Alfano[22].

Omicidio del boss Di Blasi, e successiva escalation tra i clan messinesi

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A inizio anni '90 la città di Messina subì una nuova alterazione degli equilibri criminali istauratisi per un brevissimo periodo dopo il maxiprocesso. L'evento in assoluto più significativo è stato l'omicidio del boss Domenico Di Blasi (ex braccio destro di Costa) ad opera del clan Mancuso e del gruppo Rizzo. Seguì un'escaletion formata da una lunga serie di sanguinosi delitti e di rappresaglie. La cupola mafiosa messinese decise all'unisono di porre fine al gruppo di Mancuso e al meno rilevante gruppo di Rizzo (da tempo nemico di Di Blasi e già precedentemente affiliato all'ormai estinto clan Cariolo proprio per questo motivo). Furono utilizzate tecniche e meccanismi quasi paramilitari, come appostamenti, pedinamenti e agguati operati da più gruppi contemporaneamente e coordinati tra di loro, con anche l'ausilio di armi semiautomatiche e giubbotti antiproiettile. A seguito delle esecuzioni avvenute nell'estate del 1992 di Giuseppe Vento e Vittorio Cunsolo, ultimi membri non detenuti dei gruppi Mancuso e Rizzo, si conclude l'escalation di rappresaglie nate dall'omicidio del Di Blasi[23].

La figura di Michelangelo Alfano

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Michelangelo Alfano, imprenditore di origine bagherese ma stabilitosi a Messina, nel 1984 fu indagato per mafia per la prima volta dal giudice istruttore Giovanni Falcone, a seguito delle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Totuccio Contorno. Nel 1996, fu condannato per associazione a delinquere nell'ambito del cosiddetto maxiprocesso quater, poiché ritenuto il principale punto di riferimento di Cosa nostra nella città di Messina. Fu nuovamente arrestato nel 2000 per rapporti illeciti con la magistratura, in particolare con il sostituto procuratore Giovanni Lembo. Gli investigatori lo consideravano il "collegamento" tra la mafia palermitana e le cosche messinesi[24]. Fu trovato senza vita nel 2005 nella periferia di Messina e si ipotizzò si trattasse di un suicidio poichè lasciò un biglietto di scuse rivolto ai familiari in cui esprimeva la paura di ritornare in carcere[24][25].

Le operazioni antimafia dei primi anni 90: il ruolo di primo rilievo di un boss di Messina

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Nei primi anni novanta, le operazioni "Peloritana 1", "Peloritana 2" e "Mare Nostrum", portate avanti dai magistrati Giovanni Lembo e Marcello Mondello della DDA di Messina, e incentrate su quanto dichiarato dai collaboratori di giustizia Mario Marchese (di Messina), Umberto Santacaterina (di Messina), Luigi Sparacio (di Messina), Giuseppe Chiofalo (di Barcellona Pozzo di Gotto) e Orlando Galati Giordano (di Tortorici), portarono a centinaia di arresti che destabilizzarono la criminalità organizzata a Messina e nella provincia circostante[26][27]. Quando uno dei magistrati del pool antimafia ha esaminato per la prima volta i verbali delle confessioni di Luigi Sparacio, giovane capo delle cosche messinesi, è rimasto sbalordito. Le dichiarazioni contenevano dettagli sulle recenti trame mafiose e sugli attentati che hanno scosso l'Italia, e i nomi che vi figuravano erano altamente compromettenti. Il pentito menzionava ex ministri e sottosegretari, parlamentari, membri di logge massoniche, persone che lavorano in prefetture e caserme, banchieri, imprenditori, e magistrati, tutti con legami e interessi con Cosa Nostra e altre organizzazioni mafiose. "Ho dovuto leggere quei nomi tre volte per credere che fosse tutto vero", ha confessato il magistrato. I nomi riguardavano Messina, Reggio, e includevano figure note a Roma e Milano, e persino in Svizzera. Per ciascuno di questi nomi, il pentito forniva dettagli sui ruoli e sui rapporti, offrendo prove concrete. Inoltre, si confermava l'ipotesi che l'attentato in cui due carabinieri erano stati uccisi a colpi di kalashnikov sull'autostrada a Scilla, in Calabria, mirasse a eliminare i cinque magistrati messinesi che stavano trattando il pentimento del boss Sparacio, appena trentaduenne e rappresentante provinciale di Cosa Nostra a Messina, delegato da Nitto Santapaola per i rapporti con le cosche della 'Ndrangheta. Sparacio era emerso come uno dei principali "luogotenenti" del crimine siciliano e calabrese, avendo raggiunto la vetta dei clan peloritani dopo la sanguinosa guerra tra clan. In quegli anni, il suo potere era cresciuto enormemente, con interessi in ogni settore, legale o illegale. Quando la magistratura gli sequestrò beni per venti miliardi di lire, il giovane boss aveva commentato quasi con indifferenza: "Cosa volete che siano...". In effetti, sembrava che avesse investito denaro ovunque, anche in una fabbrica di batterie da cucina in provincia di Latina, pubblicizzate su canali televisivi privati[27].

La partecipazione del boss Costa al Processo Andreotti

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Tra il 1993 e il 2004 si celebrò, nei suoi tre gradi di giudizio, presso le autorità giudiziarie di Palermo, Perugia e Roma, il processo contro Giulio Andreotti, al quale si ascoltarono anche le dichiarazioni del più rilevante boss messinese degli anni '70 e '80 ormai detenuto: Gaetano Costa.

L'arresto del boss del CEP: Iano Ferrara

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Nel marzo del 1994 dopo due anni di latitanza il boss del Villaggio CEP Sebastiano "Iano" Ferrara viene arrestato a soli 32 anni. Ferrara era considerato l'uomo più influente della zona sud di Messina dal punto di vista criminale dopo Luigi Sparacio. Molti abitanti del Villaggio CEP lo consideravano un benefattore, poiché pare fosse solito aiutare le famiglie in difficoltà e impedire che i ragazzi del quartiere consumassero droghe, questa caratteristica gli valse l'appellativo di "boss buono" e lo rese celebre in tutta Italia. Nel momento del suo arresto molti abitanti del quartiere scandirono a gran voce il suo nome e inveirono contro i poliziotti. La protesta per il suo arresto continuò anche di fronte al tribunale, dove una folla di persone si sono riunite per rendere omaggio al boss. Dopo essersi "pentito" Ferrara è diventato un simbolo della lotta alla droga e alla malavita [28].

Le vicende legate all'Università di Messina

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Il 15 gennaio 1998, il professor Matteo Bottari, primario endoscopista del Policlinico universitario, viene assassinato con un colpo di lupara nella sua auto, dando inizio al "caso Messina". Le indagini, condotte dalla squadra mobile e dalla Criminalpol e coordinate dal pm Carmelo Marino, si concentrano subito sulla gestione degli appalti universitari. Giorno 11 febbraio, la Commissione nazionale antimafia arriva a Messina e, in tre giorni di audizioni, delinea un quadro allarmante: la città risulta dominata da un intreccio di interessi politici, economici e mafiosi, con il cuore dell'attività collocato all'Università, che gestisce appalti per 250 miliardi di lire. I commissari accusano il Palazzo di giustizia e il sottosegretario agli Interni Angelo Giorgianni, ex magistrato a capo del pool mani pulite messinese. Emerse che la Procura, guidata da Antonio Zumbo, cognato del fratello del Rettore, aveva avviato numerose inchieste per creare un diversivo e proteggere gli interessi consolidati. La relazione dell'antimafia porta alle prime conseguenze: il presidente del Consiglio Prodi costringe Giorgianni alle dimissioni, e due magistrati, Zumbo e Romano, sono costretti al trasferimento. Anche i tentativi di depistaggio delle indagini sull'omicidio Bottari emergono, con i legami tra la 'ndrangheta calabrese e il Policlinico di Messina: il rettore e il prorettore denunciano minacce di morte ricevute, mentre il segretario generale trova la sua auto danneggiata da cinque colpi di pistola. Nonostante le critiche della Commissione antimafia, Diego Cuzzocrea si ricandida a rettore e viene eletto al primo turno il 4 maggio. Tuttavia, il 10 giugno si autosospende in seguito alle accuse, insieme al fratello e al cognato, di aver simulato il furto della propria auto e le minacce ricevute. Quattro giorni dopo, per evitare la sospensione cautelare richiesta al gip dal pm Marino, si dimette definitivamente[29]. Nel frattempo proseguirono le indagini sull’omicidio del professor Bottari. Nel giugno 1998 i sospetti caddero su Giuseppe Longo, gastroenterologo collega della vittima. Fu “formalmente sospettato” di aver commissionato l’omicidio a causa di dissidi relativi alla ristrutturazione di un padiglione del Policlinico ma fu arrestato soltanto con l'accusa di essere contiguo alla 'Ndrina Morabito di Africo, che, attraverso di lui, si sarebbe infiltrata nell'Università.[30] Mai accusato ufficialmente per il delitto Bottari ed assolto da ogni accusa di mafia nel processo «Panta Rei»[24], Longo morì suicida nel 2013, all'età di 64 anni[31].

Una lupara

I Fratelli Mignacca di Tortorici

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A fine anni novanta e all'inizio degli anni 2000, sui monti Nebrodi, precisamente nel territorio di Montalbano Elicona, i fratelli tortoriciani Vincenzino e Calogero Mignacca svolgevano attività criminali di spessore non indifferente. I due si sono dati alla latitanza nel 2008, quando la Corte d'Assise di Messina ha predisposto l'arresto per loro condannandoli all'ergastolo con l'accusa di associazione mafiosa finalizzata all'esecuzione di omicidi, estorsioni e rapine. Nel 2013 si scoprì che i Mignacca si erano rifugiati a Lentini, in provincia di Siracusa, in un casale in aperta campagna, il che lasciò presagire un rapporto di collaborazione tra il clan dei tortoriciani e i clan catanesi. Una volta notata l'irruzione delle forze dell'ordine, Vincenzino Mignacca si sparò un colpo alla testa, mentre Calogero venne arrestato. All'interno del casale furono trovati dei documenti e un computer portatile, oltre ad una pistola Beretta, una pistola Browining, una mitraglietta Skorpion con silenziatore, un Kalashnikov, due doppiette ed un fucile a pompa[32].

Business dei rifiuti e infiltrazioni nelle amministrazioni comunali della zona tirrenica della provincia

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Dal 2003 in poi sono state poste in essere dal cosiddetto "clan dei Mazzarroti" diverse attività illecite nella zona tirrenica della provincia, in particolare nei territori comunali di Mazzarrà Sant'Andrea, Tripi e Furnari. Si tratta soprattutto di gestione delle discariche e manipolazione delle elezioni amministrative del comune di Furnari, poi sciolto nel 2010 proprio per infiltrazioni mafiose. Per lo stesso motivo era stato sciolto nel 2005 il comune di Terme Vigliatore e venne sciolto nel 2015 anche il comune di Mazzarrà Sant'Andrea[33].

Operazione "Batangas": la shaboo proveniente dalle Filippine

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Nel 2011 fu condotta un'operazione antidroga definita "batangas" per contrastare l'importanzione e lo spaccio di "Shaboo": una droga sintetica proveniente dalle Filippine con effetti critici per il sistema nervoso. L'importazione e lo spaccio erano in mano ad un gruppo criminale filippino operante a Messina. Altri episodi legati allo spaccio della potente droga filippina si sono verificati fino al 2023[34][35].

Ritrovamento di esplosivi e grosse quantità di armi e munizioni nel quartiere Mangialupi di Messina

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Nel 2013, nel rione Mangialupi, sono stati scoperti diversi arsenali: una mitraglietta Uzi con la canna filettata per il montaggio del silenziatore, pistole semiautomatiche Beretta, pistole Revolver, un fucile semiautomatico Breda calibro 12, vari chilogrammi di polvere da sparo, migliaia di cartucce, diversi chilogrammi di esplosivo (tritolo) e persino una penna-pistola artigianale, completamente operativa. Nello stesso anno, nel villaggio Acqualadroni, situato nella zona nord, sono stati rinvenuti sotto mezzo metro di sabbia: 16 chili di eroina, 1,2 chili di cocaina, varie pistole, una mitraglietta "Walter" calibro 9 e migliaia di cartucce[36][37].

Una mitraglietta Walther molto simile a quella trovata sotterrata nella spiaggia del quartiere Acqualadroni di Messina
Una mitraglietta Uzi molto simile a quella trovata nell'arsenale mafioso nel quartiere Mangialupi di Messina

Operazione "Katana": gruppo criminale srilankese seminava terrore tra i connazionali nella zona nord di Messina

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Nel 2014 durante l'operazione "Katana" venne scoperta e smantellata una banda di uomini di origine srilankese che terrorizzava i propri connazionali con estorsioni, pestaggi e rapine. Non si sono registrati casi di aggressione o estorsione da parte di questo gruppo criminale ai danni di soggetti autoctoni. La prima aggressione risale al 2011, quando un gruppo di 25 persone originarie dello Srilanka ha accerchiato un proprio connazionale nella località Sperone pestandolo a sangue e derubandolo di una collana d'oro. La stessa vittima colpevole di aver denunciato venne raggiunta da tre soggetti del gruppo e derubata di 400 euro, dopo aver subito colpi con grosse catene di ferro e mazze. Nel 2012 si registra un altro caso di violenza ai danni di due commercianti srilankesi della località Sant'Agata che si erano rifiutati di sottostare alle estorsioni e che erano stati raggiunti da circa una ventina di connazionali armati di catene, mazze, coltelli e taglierini. Altri episodi sono avvenuti nel 2013 a Piazza del Popolo e nel quartiere "Torrente Trapani". Lo stesso anno alcune vittime si sono organizzate per vendicarsi nei confronti di alcuni membri del gruppo criminale effettuando una spedizione punitiva all'interno di un appartamento di uno di essi, ma la risposta del gruppo non si fece attendere ed il 21 maggio uno degli uomini ritenuti rivali venne accerchiato, immobilizzato, rapito e portato dentro un abitazione per essere torturato o forse ucciso ma per fortuna intervenne in tempo la polizia[38].

Discarica di Mazzarrà: cimitero di mafia

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"Nella discarica di Mazzarrà Sant'Andrea sono stati ritrovati scheletri umani, pare resti di cadaveri risalenti a pochi anni fa. Non posso dire altro perché la questione è oggetto di un'indagine sia da parte della Commissione, che accerterà le responsabilità politiche, sia da parte della magistratura". Queste sono state la parole dell'allora presidente della Commissione antimafia dell'Assemblea regionale siciliana, Nello Musumeci nel 2014, nel corso della presentazione, a Palazzo dei Normanni, a Palermo, del disegno di legge sul codice etico. La vicenda era già emersa nel gennaio 2011. Successivamente dei pentiti di Barcellona Pozzo di Gotto e Mazzarrà Sant'Andrea hanno indicato nuovi siti dove sarebbero state sepolte persone vittime di lupara bianca[39].

Operazione "Holiday": narcotrafficanti messinesi in Sud America

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L'operazione "Holiday" fu un operazione antidroga posta in essere nel 2015 dalla guardia di finanza di Messina con lo scopo di smantellare un gruppo di narcotrafficanti, nel quale figura anche il nome di Vincenzo Torrisi, nipote del boss catanese di Cosa Nostra Nitto Santapaola. Il nome dell'operazione deriva dal termine in codice (“vacanza”) adottato dal messinese Gangemi (alias “Ginger”), elemento di spicco del gruppo criminale, quando doveva recarsi in Sud America per organizzare le spedizioni di cocaina. Gangemi era coadiuvato dal collaboratore Bellinghieri, noto trafficante messinese operante nell'area milanese, che si occupava di smistare la droga grazie a numerosi contatti in Italia nelle città di Milano, Bergamo, Lodi, Aosta nel nord-Italia, e a Roma e Ostia nel centro-Italia. Le mete dove si recava il Gangemi per organizzare spedizioni di cocaina erano: la Colombia, Santo Domingo e Panama. I due narcotrafficanti messinesi sono stati arrestati nell'aeroporto El Dorado di Bogotà in Colombia[40].

Nuovo sodalizio di gruppi mafiosi nella zona centro-sud di Messina

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Circa dal 2015 in poi nelle zone del centro-sud di Messina si affermarono tre distinti gruppi criminali: il clan Lo Duca a Provinciale, il clan De Luca a Maregrosso ed il meno cospicuo gruppo Sparacio nella zona di Fondo Pugliatti. Il gruppo Sparacio faceva capo a Salvatore Sparacio (nipote del ben più famoso boss di fama nazionale Luigi Sparacio, il cui clan tuttavia pare non avesse alcun legame con quello capeggiato dal nipote in tempi recenti). I tre gruppi agivano in stretta collaborazione, quasi come se si trattasse di un unico clan e facevano cassa comune presso il Clan Lo Duca. A tale sodalizio si imputano principalmente i reati di usura, estorsione e gestione di gioco d'azzardo e scommesse clandestine. Inoltre pare che intervenissero nelle dispute tra gli abitanti dei quartieri in cui operavano cercando di impartire un proprio ordine [41]. Il boss Lo Duca è un profilo criminale di spicco non soltanto nel panorama messinese. Gli investigatori lo hanno visto incontrarsi con esponenti della 'Ndrangheta calabrese come Giovanni Morabito (il nipote del numero uno della 'Ndrangheta Giuseppe Morabito detto "u Tiradrittu") di Africo e i Favasuli di San Luca. Nel 2017 invece viene intercettato a incaricare la sorella a spedire gli auguri di Natale ai boss detenuti Sandro Lo Piccolo di Palermo e Giuseppe De Stefano di Reggio Calabria[42].

Messina al centro di affari di droga tra le realtà criminali d'Italia, Paesi Bassi e Spagna

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Nel 2024 è stata condotta una maxi operazione antidroga tra Sicilia e Calabria per la quale sono stati impiegati 800 uomini delle forze dell'ordine. L'inchiesta ha rivelato la presenza e l'attività di un sodalizio criminale con base a Messina e con rapporti con i clan di Barcellona e Tortorici, impegnato nel traffico di stupefacenti. Questo gruppo aveva legami con reti calabresi, in particolare nella piana di Gioia Tauro, a Rosarno e a San Luca, e avevano diramazioni e contatti anche in Campania, Lombardia e all'estero, in Spagna e Paesi Bassi. Le indagini hanno identificato i canali di approvvigionamento della droga: la cocaina e il crack provienivano dalla Calabria, l'hashish dalle province di Napoli e Milano e dalla Spagna, mentre lo spice (un cannabinoide sintetico con effetti psicotropi molto pericolosi per la salute) arrivava dai Paesi Bassi. La droga arrivava ai clan messinesi che a loro volta la smistavano alle organizzazioni della provincia. Pare che nel quartiere Giostra di Messina, ma anche nel rione Aldisio e a Santa Lucia sopra contesse, ci sarebbero stati una sorta di "fortini" allestiti in case di membri del gruppo, utilizzati per immagazzinare e proteggere la droga. Il gruppo di Messina avrebbe racimolato circa mezzo milione di euro al mese, ma il giro d'affari complessivo con coinvolgimento della 'Ndrangheta ammonta a diversi milioni[43][44][45].

Metodi utilizzati e simbologie

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Le cosche messinesi sono solite ricorrere ad infiltrazioni nell'alta società, nella politica, nell'imprenditoria e nelle istituzioni. Questa tendenza viene definita rito peloritano, e prende il nome dai monti Peloritani, che sovrastano la città di Messina. Per quanto riguara le simbologie utilizzate, specialmente quelle d'iniziazione, esse si rifanno in gran parte a quelle utilizzate dalla 'Ndrangheta. Le strategie di azione invece erano in passato similari a quelle della nuova camorra organizzata di Raffele Cutolo, ed includevano appostamenti, pedinamenti e coordinazione tra gruppi d'azione[9]. In provincia invece le consuetudini mafiose sono più violente, ma molto meno occulte e di conseguenza più evidenti. Anche per questo motivo la maggior parte dei rapporti criminali internazionali sono in capo ai clan del capoluogo, spesso tramite intercessione della 'Ndrangheta[46].

Attuale suddivisione del territorio

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-Giostra: clan Galli/Tibia.

-Gravitelli: clan Mancuso.

-Provinciale: clan Lo Duca.

-Fondo Pugliatti: Gruppo Sparacio

-Maregrosso: clan De Luca.

-Camaro: clan Ventura/Ferrante.

-Mangialupi/Gazzi/Fondo Fucile/Aldisio: clan Aspri/Trovato/Trischitto/Cutè.

-Contesse/Santa Lucia sopra contesse/CEP: clan Spartà/Pellegrino[47].

Provincia versante tirrenico

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-Barcellona/Milazzo/Terme Vigliatore: clan dei Barcellonesi.

-Furnari/Falcone/Novara/Mazzarrà/Tripi: clan dei Mazzarroti.

-Patti/Capo d'Orlando/Brolo/Monti Nebrodi orientali: clan dei Batanesi/Tortoriciani.

-Monti Nebrodi occidentali: famiglia di Mistretta[48].

Provincia versante ionico

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-Taormina/Giardini: clan Oliveri (legato al clan Laudani di Catania) e clan Di Mauro (legato alla famiglia Santapaola/Ercolano di Catania).

-Valle dell'Alcantara: clan Cintorino (legato al clan Cappello di Catania)[49].

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