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- ceva ne la vita umana. Va adunque a' fatti tuoi, chè io mi voglio ritirare un poco più sotto terra.
- Ulisse.
- Io non so se io son desto, o pur s'io sogno: se io sono desto certamente che io non son più quello Ulisse che io soglio dappei che io non ho saputo far credere a nessuno di questi due la verità. E soleva pur persuadere già a i miei Greci tutto quel ch'io voleva. Ma penso ch'e' venga il difetto da loro, perchè io mi sono abbattuto a due che non son molto capaci di ragione. E non è anche maraviglia, essendo l'un pescatore e l'altro contadino; si che e' non mi doverrà intervenire cosi con ciascheduno de gli altri, ne già ei non fossero tutti d'una sorte medesima. Io adunque voglio tornare a Circe, e dirle quello che mi è avvenuto, pregandola che non voglia mancare di quanto ella mi ha promesso, e che mi faccia parlare con qualchun altro; perchè mi parrebbe troppo grande ingiuria, se costoro non hanno conosciuto il bene eglino, o veramente non lo vogliono, mancare di far questo beneficio a gli altri.
DIALOGO SECONDO.
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- Circe.
- Che dicono questi tua Greci, caro mio Ulisse? Èvvene alcuno che voglia tornare uomo?
- Ulisse.
- Nessuno. Vero è che io ho parlato solamente a que' due che tu mi dicesti, che l'uno fu pescatore e l'altro contadino; la vita de' quali è tanto misera e faticosa, che io non mi meraviglio che non voglino ritornare a provarla.
- Circe.
- Non pensare che io abbia fatto ancora questo a caso; che io ho voluto che tu cominci a vedere che ancora in quegli stati bassi, che sono stati già tanto lodati da molti de' vostri scrittori, sono tante incommodità, che i più vili ed imperfetti animali che si rítruovino, stanno meglio di loro, ed eglino te ne hanno assegnato le ragioni.